Ottavio Bottecchia, il primo eroe del Tour, la cui fine è ancora in giallo

Nacque poverissimo, ma dopo due trionfi a Parigi, nel '24 e '25, era un uomo ricco e un beniamino di Mussolini. Una mattina del 1927, però, lo trovarono con la testa spaccata. Incidente in bici o omicidio? Uno dei più misteriosi gialli dello sport, incrociando realtà e fantasia, che a distanza di tanti anni, controllando fonti e archivi rimane sempre irrisolto.
La mattina del 3 giugno 1927 Ottavio Bottecchia esce per allenarsi. E' un ciclista ricco e famoso, ha vinto due Tour de France. Poco più tardi un contadino lo troverà agonizzante, sul ciglio di una strada a Peonis, vicino a Gemona. E' ridotto male: testa insanguinata, escoriazioni su tutto il corpo. Un ruzzolone, sembra. Muore dodici giorni dopo all'ospedale, senza riprendere conoscenza. L'assicurazione paga alla famiglia la polizza vita: 500 mila lire.
La pratica viene liquidata in fretta. Al funerale del campione vanno tutti: i balilla, i combattenti, i mutilati, le scuole, i vecchi ciclisti. Viene seppellito a San Martino di Colle Umberto, provincia di Treviso, dov'è nato nel 1894 (la sua frazione si chiama Borgo Minelle).
Ottavio è ultimo di otto figli, padre commerciante di granaglie, madre contadina. Lavora nei campi, poi calzolaio, poi muratore. La Prima guerra mondiale lo investe in pieno, il fronte del Piave ce l'ha sotto casa, si ritrova in divisa: bersagliere ciclista, ruolo d'informatore. Gli austriaci lo acciuffano tre volte, si salva, pure dalla malaria. Carattere tosto. Quando gli rubano la bici, se la va a riprendere nella trincea nemica. «Buonanotte fioi de' cani»: decorato con la medaglia di bronzo.
Il conflitto finisce, la fame no. Ottavio è costretto a trasferirsi a Caporetto, dove lavora come carrettiere, poi va a vivere in Francia, a Clermont-Ferrand. Giornate bianche, di calce e mattoni, ma senza gloria. Nel '20 torna in Italia con Caterina Zambon, si sposa, tira avanti. Un anno dopo nasce Elena Giovanna, che però a sette mesi muore di difterite. Forse per far passare il dolore, alla domenica, giorno di riposo, torna in sella.
È magro come un'acciuga. Nel '21 vince tre corse su quattro. Nel '22, a 28 anni, capisce che è troppo vecchio per aspettare. Un amico lo raccomanda a Luigi Ganna, vincitore del primo Giro nel 1909, che ora costruisce biciclette. Ganna lo ingaggia per 150 lire al mese. Nel '23 Bottecchia partecipa alla Milano-Sanremo. Va in fuga, lo riprendono, vince Girardengo, ma intanto Ottavio si è fatto notare. Torna a casa in treno, biglietto di terza classe. Va al Giro, dove viene ingaggiato per il Tour, tappe massacranti di 400 chilometri, che altri rifiutano, duemila franchi per ogni tappa conclusa. Correrà con i fratelli Pelissier, suoi eroi quando era muratore in Francia.
Si capisce subito che non farà il gregario. Va all'assalto di Alpi e Pirenei, è il primo italiano a conquistare la maglia gialla. Sulla mostruosa salita dell'Aubisque, sentiero fradicio di pietrisco e neve, ingenuo, avverte tutti: «A vae mi». Per i francesi, è Botescià. Gli offrono un triennale: 3600 franchi al mese, 40 mila lire. Per un pranzo di lusso, allora, se ne spendevano otto. Alla fine è secondo. Corre da muratore con i pantaloni rattoppati. La Gazzetta, per lui lancia la sottoscrizione Tutti una lira: partecipa anche Benito Mussolini.
Con quei soldi Ottavio compra casa, la sua vita sta cambiando. Nel '24 al Tour è primo da Parigi a Parigi, quindici durissime tappe, senza mollare. Il primo italiano a trionfare, con la bici si scavalca la miseria e la guerra. Non era mai successo che il vincitore del Tour indossasse la maglia gialla senza mai perderla. Compra vestiti per i 37 nipoti, e per il suo gregario Piccin. Senza badare a una lettera anonima che lo minaccia: «Sei un fascista e la pagherai».
Nel '25 rivince il Tour. Ormai è un signore, vive con moglie e due figli a Pordenone, ha una Om 2000 limousine, auto a sei posti, uno è per l'autista. Roba da ricchi. Dà anche il suo nome a una bici. Ma non è benvoluto, passa per spilorcio, suscita invidie. Nel '27, alla Parigi-Bordeaux, accusa un malore. Il 22 maggio dello stesso anno muore suo fratello Giovanni, con cui ha condiviso la passione per le due ruote. Giovanni viene investito mentre pedala verso casa: trauma cranico, niente da fare.
Ottavio assiste cognata e nipoti. E risale in sella, vuole reagire al dolore. E il 3 giugno: fa colazione, uno zabaione con quattro uova arricchito di marsala, nella bisaccia qualche uovo sodo. Pedala da solo, il suo gregario ha da fare. Verso mezzogiorno, la notizia: il campione è caduto, trauma cranico anche per lui. I due fratelli Bottecchia muoiono a tre settimane di distanza, nello stesso modo.
La nipote Elena dirà che quella mattina Ottavio non stava bene. Cercò qualcuno che lo accompagnasse nell'allenamento. Ma non trovò nessuno. Tre contadini sono testimoni della coda dell'incidente: avvertono il tonfo, vedono l'uomo rialzarsi. Lo riconoscono, gli asciugano il sangue che cola dalla bocca, se lo caricano in spalla e lo portano nell'osteria del Paese. Viene il prete a dargli l'estrema unzione.
Placido di Santolo ha un calesse, ma per trasportare Bottecchia all'ospedale vuole soldi. Sono cinque chilometri. Non fa sconti, è irremovibile. Uno sconosciuto si offre di pagare. A Trasaghis, a metà strada, Placido si ferma per dissetarsi in osteria. La via è dissestata. Le ultime parole di Bottecchia sono: «Malore, malore». In ospedale la diagnosi è: «Frattura della base cranica, della clavicola destra, escoriazioni al gomito destro». Ma la strada non era pericolosa. Forse il caldo. Si ripensa a quello stop nella Parigi-Bordeaux. Il corridore era parso assente. Però la sua bici è senza un graffio.
Mistero, giallo. Due persone si accusano, un'altra accusa. Ci sono tre diversi assassini, tre moventi diversi. Un contadino: «L'ho ucciso perché rubava la mia uva». Un sardo emigrato negli Usa, Berto Olinas, agonizzante con tre coltellate nel ventre, sussurra: «E stata la mafia a eliminare i due fratelli, perché lui non stava ai patti con le scommesse». Il parroco Dante Nigris, che impartì a Bottecchia gli ultimi sacramenti: «E rimasto vittima di un agguato politico». Il libro verifica tutto: date, tesi, imprecisioni, salite e discese. E finisce con un altro dolore. Certe fughe sono inarrestabili. Belle nella loro tristezza.

Articolo di Emanuela Audisio, tratto da "Il Venerdì di Repubblica" n. 916 di venerdì 7 Ottobre 2005, pag.51/52.













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