Michele Bartoli, la storia di un campione - 2

Rivista Tuttobici Numero: 2 Anno: 2005

Bartoli - La scoperta del Grande Nord

di Alessandra Giardini

La prima volta Michele Bartoli faceva il dilettante. C'era questa trasferta in Belgio, e quando partì non sapeva ancora che si sarebbe innamorato a prima vista. «Oddio, quelle erano corse che mi erano sempre piaciute più di tutte, anche viste in tivù. Prendi la Sanremo, che a me piace tantissimo: quando la stai guardando alla tele, puoi anche alzarti per una mezzora, e quando torni non è successo niente. Al Fiandre o alla Liegi devi stare lì attaccato, non le puoi mollare un secondo. Io ho sempre avuto la passione per il Belgio, anche prima di andarci».
Fu un colpo di fulmine: le strade murate di gente, le partenze al buio e al freddo delle mattine fiamminghe. Michele vinse subito, perché era giusto così: quelle sarebbero state per sempre le sue corse, le sue strade, la sua passione profonda. Correva sui percorsi che qualche anno più tardi avrebbe dominato, e vinceva. Erano le strade del Fiandre e della Liegi, e lui le imparava a memoria arrivando primo fra i dilettanti. Ci vinse anche i mondiali militari a cronometro, in quartetto. Aveva puntato tutto sul ciclismo, senza pensare che magari era un azzardo. La scuola l'aveva lasciata lì dopo la terza media, «eppure non ero neanche tanto scarso, musica a parte: non ci sento proprio, i solfeggi e il flauto erano una pena, e anche in chiesa, quando facevamo il coro, a me dicevano di muovere solo la bocca, senza cantare».
Basta con la scuola, senza rimpianti, «però mi ricordo ancora il professor Passetti, di fisica, l'unico che mi aiutava. Diceva: se domani devi correre, questo non lo fare».
Ma al giovane Bartoli piacevano le corse: all'inizio Moser, poi Lemond, «che prima annunciava che avrebbe vinto e poi vinceva davvero», e più di tutti Bugno, che dopo è diventato un compagno di squadra e un amico, «il più forte di tutti quelli che ho conosciuto, senza discussioni».
Intanto, fra i dilettanti, nasceva l'amicizia con Luca Scinto, che è stato il più fedele gregario di Michele.
«Non mi piace dire che l'ho lasciato vincere. Al massimo l'ho aiutato, per riconoscenza, perché magari in quel momento ne aveva più bisogno di me. Mi ricordo una volta che arrivammo noi due dopo una fuga a sette, non si fece neanche la volata. Ma eravamo ancora dilettanti. Da professionista mi è successo una volta sola, con Bettini, alla Tirreno. E una volta mi è anche successo il contrario, quando ho vinto il Giro del Lazio grazie a Flecha. Mi ha detto di averlo fatto perché in quel momento ne avevo più bisogno di lui, e non era neanche un mio compagno di squadra, qualcosa che non dimenticherò mai».
Da dilettante continuò a correre poco, seguendo i consigli di papà Graziano. Ma vinse meno di prima.
«È la categoria che mi è risultata più complicata di tutte. Il salto fu difficile, l'ambiente mi sembrava pesante. Cominciava a essere quasi un lavoro, e mi divertivo meno di prima. Prima era un gioco, dopo sembrava sempre questione di vita o di morte, ogni corsa era l'ultima spiaggia. Non ero pronto, mi costava tanto vedere il ciclismo in quel modo».
Alla fine degli anni da dilettante non arriva neanche il premio della maglia azzurra: alle Olimpiadi di Barcellona vanno Casartelli, Rebellin e Gualdi, per Michele è la prima grande esclusione.
«Forse avrei meritato quella maglia più di Gualdi, sì, ci rimasi male».
In quegli anni c'è soltanto un corridore che gli sembra di un'altra categoria: «Tarocco, un fenomeno. Eravamo amici, in nazionale siamo stati compagni di stanza. Lui era proprio fortissimo, più di tutti gli altri. Purtroppo lo ha fermato il ginocchio, a quei tempi certi infortuni non si risolvevano».
Alla fine del '92 Bartoli diventa professionista con la Mercatone Uno, ma gli bastano le ultime corse della stagione per farsi prendere dai dubbi.
«Volevo smettere, mi sembrava che andassero tutti molto più forte di me, troppo forte. Mi convinsi di non essere tagliato. È stata Alessandra a insistere, a dirmi che non potevo lasciare così qualcosa per cui mi ero sacrificato da sempre. Passammo quasi tutte le sere di quell'inverno in macchina, a parlare. E alla fine non smisi di correre».
Dopo i primi anni passati a giocare con gli sguardi, a raccontarsi tutto in lunghe telefonate, a sedersi vicini quando c'era la cena della Montecarlo («c'era mio fratello Mauro a tirarmi la volata senza saperlo, voleva sempre che lei si mettesse accanto a me»), la figlia del suo vecchio diesse era diventata quello che Michele aveva saputo da sempre: la donna della sua vita. «Non mi feci avanti finchè non fui sicuro che mi avrebbe detto sì, da lei un rifiuto non l'avrei accettato, ho sempre saputo che era lei quella giusta e non potevo sbagliare. Così ho perso anni ad aspettare, senza sapere che cosa fare».
Michele si era deciso alla fine dell'88, poco prima di partire per il servizio militare, alla compagnia atleti di Bologna. Da allora c'è sempre stata Alessandra dietro i successi di Bartoli, e accanto a lui nei momenti difficili. Cominciando da quelle sere piene di dubbi nell'inverno fra il '92 e il '93, quando Michele aveva ventidue anni e non riusciva neanche a immaginare quanto sarebbe stata piena di luce la sua carriera di corridore.
A partire dalla prima corsa del '93. Michele va alla Settimana Siciliana, in ammiraglia ci sono Gini e Salutini, in squadra con lui c'è Fornaciari, sono diventati professionisti assieme.
«Era la prima tappa, un circuito con una salitella, l'arrivo era a Palermo, nella strada dell'attentato al giudice Borsellino, il giorno dopo ripartimmo da Capaci, dove c'era stata la strage di Falcone. Era una giornata tremenda: pioggia, vento, un freddo cane, più che Sicilia sembrava Belgio. Eravamo rimasti in cinque, Forna mi tirò la volata: io primo, lui secondo, una roba scientifica. Ho appena raccolto le immagini di tutte le mie vittorie: registrazioni della Rai, delle tivù straniere, qualche cassetta me l'hanno spedita i miei tifosi. L'unica che non ho è proprio quella prima vittoria da professionista, perché quando mancava un giro alla fine ci fu un cambio di canale sulla Rai e dalla registrazione manca proprio l'arrivo. Ma mi ricorderò sempre quello che ci dicemmo quella sera io e Fornaciari, nella nostra camera: niente è impossibile».
(2 - continua)
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