Jan Ullrich: il Tour, la mia vita

Rivista Tuttobici Numero: 3 Anno: 2006

Ullrich: il Tour, la mia vita

di Pier Augusto Stagi

È come se il mondo del ciclismo fosse in attesa del conclave, che si terrà a luglio sulle strade di Francia, in attesa di una fumata bianca che possa dire finalmente chi sarà il successore di Lance Armstrong. Lui, Jan Ullrich, è certamente uno dei più papabili. Forse il più atteso, il più scontato, ma nel ciclismo come nella vita, nulla è scontato e tantomeno già scritto.
Jan Ullrich da bambino prodigio è man mano diventato l'eterno secondo. In verità lui con un Tour de France nel cassetto, un titolo olimpico, un titolo mondiale e tante altre corse di prestigio nel suo palmarés, non può essere considerato né un Tano Belloni né tantomeno un Raymond Poulidor. Jan è un vincente nato che ad un certo punto della carriera ha trovato sulla sua strada un marziano a stelle e strisce. Un po' come accadde a Felice Gimondi, che convinto di poter essere finalmente l'uomo da battere, fu travolto da un uragano proveniente dal Belgio di nome Eddy Merckx.
Ullrich l'abbiamo recentemente incontrato sulle strade di Spagna, dove ha svolto lavori specifici in attesa della sua nuova stagione agonistica. In cima a tutto c'è l'obiettivo di sempre: il Tour de France. Poi il resto verrà da sé. Abbiamo parlato un po' di tutto: dal Giro, al Tour, da Basso ad Armstrong, di Pantani e dei tanti momenti duri che è stato costretto ad affrontare. Abbiamo parlato dell'oggi, del domani e soprattutto di quello che è successo ieri. Di quello che lui in gran parte ha già raccontato nel suo libro autobiografico "O tutto o niente" (editato in Italia dalla Libreria dello Sport), e che per l'occasione ha voluto nuovamente ribadire. Ascoltiamolo.
Pensa di venire quest'anno al Giro d'Italia? E se deciderà di schierarsi al via, correrà per fare classifica o solo in prospettiva Tour de France?
"C'è una forte possibilità che io venga a correre il Giro, la corsa mi piace ma una cosa è certa: non verrò per fare classifica. Il Tour è la mia priorità e tutto il resto verrà in secondo piano. Certo, non verrò per portare in giro la bicicletta, un segno della mia presenza vorrei lasciarlo, magari vincendo una bella tappa".
Teme più Ivan Basso o le strategie di Bjarne Riis?
"Conosco tutti e due, però per vincere il Tour bisogna essere semplicemente i più forti. Io credo che il ciclismo non sia così difficile: chi pedala più forte vince e io penso di poter vincere, perché pedalerò più veloce di Basso e tutti gli altri. E poi, se non mi dovesse andare bene, ci riproverò: fino alla fine della mia carriera proverò sempre a vincere il Tour, la corsa dei miei sogni".
Cosa pensa di Basso: crede davvero che sia lui l'avversario più temibile?
"Forte è forte e l'ha anche dimostrato, ma non è il solo. Ce ne sono anche altri: sicuramente Vinokourov darà il meglio di se stesso e gli spagnoli non vorranno essere da meno".
Le piace l'Italia: ha mai pensato di poter un giorno venire a vivere da noi?
"Sto bene dove vivo adesso, vicino agli amici, vicino a mia figlia. Però per allenarsi l'Italia è un paese davvero meraviglioso".
Il piatto che preferisce?
"Un buon piatto di pasta fatto in casa: insuperabile".
La cosa che meno le piace degli italiani e quella che le piace più di tutte?
"A me l'Italia piace tantissimo: siete gentili, carini, sapete vivere bene. Amate i piaceri della vita e per questo è piacevole stare da voi. Cosa non mi piace? Lasciare l'Italia".
Cosa pensa di Lance Armstrong?
"Un grandissimo corridore che ha avuto la forza, il talento e la perseveranza di vincere per sette anni consecutivi la corsa più dura del mondo. Un grandissimo".
Lei ha passato momenti di grande sconforto, momenti nei quali ha anche pensato al ritiro: che idea si è fatto del dramma vissuto da Marco Pantani, un grande campione che non ce l'ha fatta a rialzarsi?
"È facile dire "bisogna pensare positivo e andare avanti", ma non è così semplice. Io sono stato per tanto tempo al buio, poi un giorno ho cominciato a rivedere la luce. Forse ho avuto fortuna, ho incontrato sulla mia strada gente giusta, io non so chi abbia incontrato Marco e non conosco nemmeno bene la sua storia. Posso solo dire che mi dispiace tantissimo che Pantani si sia lasciato morire, che si sia chiuso in se stesso, che abbia perso la sfida più importante. Marco è stato un corridore eccezionale, che in salita ha fatto vedere cose uniche. Per me era un buona persona. Troppo buona".
Qual è la critica più ingiusta che le hanno mosso in questi anni?
"Tante, ma ho imparato a non ascoltare. Nessuno è perfetto e nemmeno Jan Ullrich lo è. Ma una cosa è certa: io ho sempre dato il massimo. E continuerò a farlo".
Cosa ricorda della sua infanzia?
"Non sono stato un bambino voluto. Non suona molto romantico, ma è la verità. Mia madre, Marianne, aveva 21 anni, era già sposata e aveva un figlio di due anni, mio fratello Stefan. All'epoca studiava all'Università di Rostock, facoltà di agronomia. Si dava da fare moltissimo. Il suo campo di specializzazione era la botanica, nella tesi di laurea descrisse dettagliatamente l'effetto nocivo degli afidi dei cereali. Io non avrei potuto farlo: troppa scienza e troppa, troppa teoria. Ma lei trovava stimolante lo studio e vi si dedicava anima e corpo. Per mia madre la giornata cominciava molto prima dell'inizio delle lezioni: la sveglia suonava poco dopo le cinque. Prendeva Stefan, lo infilava nella carrozzina comprata di seconda mano, e incominciava la sua giornata. Da piccino vivevo a Biestow, il paese dove trascorsi i primi mesi di vita, un borgo che oggi fa parte di Rostock. Allora vivevamo in un minuscolo appartamento in mansarda: due camere, una piccola cucina e un bagno per un conveniente affitto di 50 marchi al mese. Nella stessa casa vivevano i miei nonni, Fritz e Ingeborg Kaatz, genitori di mamma. In quel periodo mio padre tornava raramente a casa. Werner lavorava come cementiere in uno stabilimento per pannelli prefabbricati a Rostock, dal 1973 però fu soldato di stanza dell'Esercito Popolare Nazionale nelle truppe di terra. In effetti, questa era una fortuna, perché normalmente gli uomini della RDT per il servizio militare venivano mandati in caserme molto lontane da casa. Nonostante questo, mio padre preferiva un'allegra serata di bevute con i suoi compagni di lavoro piuttosto che stare a casa. Mia madre non smise però di aspettarlo. Poi, venne il giorno della sospensione della pillola, consigliata nella RDT dopo due anni di assunzione, e una breve vacanza di mio padre nel febbraio del 1973 furono sufficienti perché mamma restasse ancora incinta".
Quando imparò ad andare in bicicletta?
"A cinque anni e mezzo. Era la bicicletta di mio fratello, vecchia però di vent'anni, senza cambio di velocità. Il primo giretto finì dopo 30 metri, contro i bidoni della spazzatura. Mio padre mi insegnò ad andare in bicicletta e poco dopo scomparve dalla mia vita. Mio fratello Thomas era appena nato; con il senno di poi, potrei dire che quello fu un tentativo disperato e evidentemente infruttuoso di mia madre per salvare il suo matrimonio. Perché in effetti mamma sapeva da molto tempo che papà non era nelle condizioni di risolvere i suoi problemi legati all'alcool e all'aggressività. Da quel momento mio padre non ebbe più alcun ruolo per me. Mia madre ci raccontava raramente qualcosa di lui, i ricordi sbiadirono nel corso degli anni. Non che io voglia essere cattivo con lui o che provi rancore per qualcosa. Gli riconosco un gran merito per non essersi fatto largo nell'opinione pubblica quando sono diventato famoso: sono convinto che abbia agito in questo modo perché non voleva partecipare ad un successo al quale lui non aveva contribuito, fatta eccezione per i suoi geni. Mamma invece è stata tutto, fondamentale, fenomenale, brava. Si è solo preoccupata che io fossi in buone mani, con gente come Peter Sager, Peter Becker, Wolfgang Strohband oppure Rudy Pevenage: gente che mi ha cresciuto e formato".
Si ricorda la prima vittoria?
"Sì, a nove anni, in una corsa campestre: vinsi, battendo ragazzini anche di tre anni più grandi. E fu grazie a questa vittoria che mi si spalancarono le porte del ciclismo. Un giorno Peter Sager, il mio allenatore, si presentò da mia mamma. Con sé aveva una tuta color rosso vino, maglie da ciclista con tasche e maniche applicabili e scarpe da ginnastica. E poi una bicicletta "Diamant" di colore blu. Da quel momento non pensai ad altro che al ciclismo: prima gara, prima vittoria".
Primo anche a Oslo...
"Era il 1993, mi laureavo campione del mondo: quella fu una delle giornate più belle della mia vita. Io avevo appena diciannove anni, e quando rientrai in Germania, all'improvviso non ero più uno sconosciuto. Quell'anno, sullo stesso circuito, a ventun anni, si laureò campione del mondo dei professionisti Lance Armstrong, uno ragazzo texano che imparai a conoscere molto bene. Dopo quel mondiale, ricordo che in un circuito ad invito, a Berlino, un giorno mi sentii chiamare: era mio padre. Come stai Jan? Mi chiese. Poi mi allungò un fogliettino bianco sul quale aveva scritto il suo numero di telefono. Iniziò a piovere, io corsi, alla fine della gara tirai fuori dalla tasca della maglia quel fogliettino, ma il numero era svanito. Mio padre pensò probabilmente che non volli richiamarlo, non fu così. Da allora non l'ho più rivisto. So solo che il 25 luglio del 1997, mentre mia madre girava a bordo dell'ammiraglia della Telekom sui Campi Elisi per la mia vittoria al Tour, mio padre era a bordo strada, mischiato tra i tifosi, con la maglia Telekom a festeggiare la mia vittoria".
Prima del suo primo Tour ci fu quello di Riis, nel '96: lei secondo, ma per molti il vincitore morale della corsa, frenato per obblighi di squadra.
"Riis quell'anno era fenomenale, meritò di vincere. Molti mi chiesero se io avessi potuto vincere quel Tour. Io dico che ero così forte perché Bjarne mi sollevava da ogni pressione. Era il favorito, doveva parare gli attacchi di tutti, doveva difendere la maglia gialla. Per me era facile correre così. Bjarne fu un capitano molto leale. Nel '97 fu lui a dirmi di attaccare, di provarci, e alla fine feci saltare il banco. Capii in quell'occasione quanto Riis era stato grandioso nel '96. Correre il Tour con la maglia gialla è un vero stress, dopo ogni tappa non vedevo l'ora di gettarmi sul lettino dei massaggi per rilassarmi, e questo invece avveniva sempre più tardi, dopo una montagna di cose da fare".
Un Tour vinto nel '97, davanti a Virenque e ad un certo Pantani...
"Marco è stato unico, fenomenale. Ricordo la sua vittoria all'Alpe d'Huez come se fosse ieri. La facilità con cui volava sulle montagne era davvero invidiabile. Non era la maglia a pois a interessargli, voleva la gloria di vittorie spettacolari. Pantani è stato l'ultimo dei grandi scalatori".
Cosa la impressionò di quella sua vittoria al Tour '97?
"L'eco che ebbe. Sapevo che la Grande Boucle ti sconvolge la vita, ma non fino a che punto. I media mi paragonavano a Boris Becker, primo tedesco a vincere a Wimbledon, o a Michael Schumacher, re della Formula Uno. Certo, in 94 anni di storia del Tour, io ero stato il primo tedesco ad aggiudicarmelo, ma il peso fu enorme. Gli esperti, per rendermi tutto più facile, facevano a gara per prevedere quante volte avrei vinto la corsa francese. La storia la conoscete bene anche voi".
Ce la ricordi: dopo cosa è successo?
"Mi sedetti un po' troppo sugli allori, ingrassai in maniera eccessiva. Poi la mia cartella clinica parlava da sola: a novembre un forte raffreddore, in dicembre infiammazione al canale uditivo, a gennaio a letto con la febbre, a marzo mi ha tormentato un'allergia. Ad aprile una bronchite: insomma, un inizio davvero brutto, sotto tutti i punti di vista. Non parliamo poi dei mezzi di comunicazione, mi hanno tolto la pelle. E quando arrivai al Tour, quello di Pantani, sapete bene come andò a finire...".
Un Tour che fu segnato dallo scandalo Festina, prima ancora che dall'impresa di Marco Pantani.
"Scandali, scioperi, fu un Tour difficilissimo, duro. Ricordo che al via della tappa verso Cap d'Agde l'atmosfera era molto tesa. Alcuni corridori si sentirono trattati così ingiustamente dalla gendarmeria che organizzarono un movimento di sciopero. Il nostro portavoce era il francese Jalabert. Io avevo la maglia gialla, e molti corridori venivano da me a chiedermi se aveva ancora senso andare avanti. Io sapevo solo che non avevo più nessuno stimolo per correre: non mi divertivo più. Alla fine decisero i team manager: si andava avanti. Ma da quel momento l'aria si fece pesante anche attorno al nostro team, che non prese mai una posizione se non quella contro il doping".
A proposito, cosa pensa del doping?
"Va combattuto, duramente, questo è certo. Però, nel ciclismo si è anche esagerato: nel nostro sport tutto diventa doping. Pensate ad una cosa: mentre un buon giocatore di tennis durante un match brucia 1.500 calorie all'ora, noi consumiamo quotidianamente fino a 12.000 calorie nelle tappe più dure di montagna. Nessuno può affermare che questa prestazione sarebbe possibile senza un aiuto. È consuetudine ricaricare le riserve di energie tra una tappa e l'altra con una serie di metodi consentiti come integratori alimentari, concentrati di vitamine e minerali, infusioni e tende a ossigeno. Quello che di quel Tour '98 mi diede molto fastidio, è che della corsa si parlò poco, di doping molto, troppo".
Poi?
"Poi la crisi. Un inverno difficile, mi ero allenato come un matto in California, ma ero nuovamente caduto in quell'orrendo circolo vizioso del sovrappeso. Ma quel che è peggio è che mi feci male cadendo e picchiando la spalla, la testa e il ginocchio. Fu un momentaccio. In Germania sullo Spiegel apparve un articolo maligno sul mio team, non ne potevo più: in ogni angolo trovavo un problema. Ero giù, e ad aprile del '99 chiamai Rudy Pevenage e gli dissi: "Io smetto". Potete immaginarvi la reazione. Fecero di tutto per farmi recuperare, andai al Giro di Svizzera, ma mi ritirai. Niente, rinunciai anche al Tour quell'anno. Mi riscattai lottando con i denti, andando poi a vincere il Giro di Spagna".
Lei tornò al Tour, nel 2000: nuovamente secondo...
"Esattamente, ma devo dire che quel risultato fu importante per me: tornavo protagonista. Però la grande soddisfazione me la tolsi ai Giochi Olimpici di Sydney: oro nella prova in linea e argento in quella a cronometro. Niente male, no?".
Poi, nel 2001 il blitz di Sanremo...
"Brutta storia, brutta esperienza anche quella. Ogni singolo medicinale che trovarono fu registrato e sequestrato. Fra questi c'erano compresse vitaminiche, antibiotici e due preparati al cortisone. Volevo spiegare che, siccome avevo un brutto raffreddore, i medicinali mi servivano, ma questo non interessava gli agenti. Avevo già dimenticato la retata anti-doping al Giro, quando fui citato da un tribunale italiano. Si trattava del cortisone che era stato trovato nel mio beauty case. Riuscii a presentare tutti gli attestati necessari e la Federazione Mondiale del ciclismo scrisse alle autorità italiane per dire che era tutto regolare. Niente, la questione andò avanti per due anni, fin quando il procedimento fu archiviato".
Ma è vero che al Tour si attua anche un lavoro di spionaggio?
"Beh, non esageriamo. Diciamo che ci si difende. Vi ricordate la scalata sul Col de Glandon nella tappa che arrivava all'Alpe d'Huez nel 2001? Noi Telekom facemmo il diavolo a quattro e Armstrong recitò la parte di quello che stava male. Bene, noi sapevamo tutto degli Us Postal, come loro sapevano tutto di noi. Rudy in mattinata aveva acceso l'apparecchio radio, ed era capitato sulla frequenza della Us Postal. In questo modo avevamo potuto sentire il traffico radio di Armstrong con i suoi direttori sportivi. In verità scoprimmo che anche loro avevano sentito i nostri dialoghi: insomma, c'era stata un'azione di spionaggio e di controspionaggio...".
Nella sua storia, oltre alla spiacevole esperienza del blitz di Sanremo, c'è anche una vicenda di doping...
"Stavo male, avevo ancora disturbi ad un ginocchio, che non ne voleva sapere di andare a posto. Mi dicevano: datti una mossa. Facile a dirsi... La sera del 21 giugno 2002, ero giù di morale. Andai con alcuni amici a Monaco al Kunstpark Ost con i suoi bar, ristoranti, discoteche e palcoscenici. Ero indolente e apatico, stavo semplicemente seduto e bevevo vino. Questo non passò inosservato ad uno dei miei amici. "Accidenti, sei proprio giù", mi disse. "È uno schifo - gli risposi - . Sto spaparanzato in una clinica di riabilitazione come un pensionato e nessuno mi dice come andare avanti. Mi sento abbandonato". Lui mi disse: "Tieni, prendi due di queste. Tra poco ti sentirai magnificamente, credimi". Forse erano troppo poche, oppure ero troppo ubriaco. Il tutto fu in ogni caso un'azione senza senso che dimenticai velocemente. Almeno in un primo momento. Delle pasticche di ecstasy sapevo che contenevano anfetamine e che erano sulla lista doping. Delle pillole che mi aveva dato il mio amico, invece, non sapevo niente. Ma, mentre in genere prestavo minuziosa attenzione a non prendere nulla di sbagliato, fossero essi medicinali o alimenti, quella sera evidentemente il cervello lo avevo spento del tutto. Cosa successe? Che la mattina dopo, quando ero ancora a letto, si presentò da me l'Agenzia Nazionale Doping. Io dissi: "cosa volete? Sono in riabilitazione". Loro mi risposero: "lei è ancora uno sportivo, o no?". Sette giorni dopo mi arrivò un sms: "Jan è molto importante. Per favore, fatti sentire". Poco dopo seppi che ero stato trovato positivo. Toccai il fondo, mi sentii perso. Questa volta il peggior avversario che dovevo affrontare ero io stesso. Ma una cosa voglio dirla, anzi, ripeterla: non era doping per barare, è stata una colossale, imperdonabile sciocchezza che ho pagato pesantemente con sei mesi di squalifica".
Poi la rinascita, con la maglia della Bianchi...
"Decisi infatti di lasciare la Telekom, dovevo andare alla DHL-Csc, la nuova squadra di Riis, che poi però non seppe darmi certe garanzie. Mi contattarono anche i belgi della Quick Step, la Phonak, la Kelme, e perfino Marco Pantani, che voleva correre con me. Poi si fece sentire il Team Coast di Gunther Dahms, un industriale tessile di Essen, appassionatissimo di ciclismo. Alla fine del 2002, con il ginocchio ristabilito, una casa nuova, mi trovai a firmare un contratto con una squadra nuova. Obiettivo? Vecchio: il Tour de France. Dahms faceva soldi con i prodotti tessili e li spendeva per i ciclisti, talmente era appassionato di questo sport. Aveva un modo di fare affettuoso e gentile, era sempre ottimista e di buon umore. Potevamo fidarci? Mi fidai. Tre settimane dopo Natale, presentò la nuova squadra. Del mio nuovo gruppo facevano parte corridori esperti come Alex Zuelle e Angel Casero. Per la prima volta allestii il mio campo di allenamenti in Toscana. Vivevamo in una fattoria, una piccola pensione con ulivi e vigneti nelle vicinanze di Lucca. Arrivò aprile: finalmente dopo quattordici mesi di pausa potevo tornare a correre, ma il mio nuovo team non aveva garanzie bancarie per poter correre. Ci salvò la Bianchi, il noto marchio di biciclette, che entrò e fornì tutte le garanzie del caso. Tornai a correre, tornai soprattutto al Tour de France con la maglia celeste Bianchi: fu un grande Tour. Certo, lo vinse ancora una volta Armstrong ma io, secondo a poco più di un minuto, dimostrai di essere tornato ad alti livelli. E pensare che nella tappa di Nevers rischiai di ritirarmi, perché avevo la febbre. Fu un calvario lungo 196 chilometri, ma mi difesi. Ho percorso gli ultimi chilometri con un senso continuo di vertigini, non stavo più in sella da tanto stavo male...".
Poi ci fu la caduta di Armstrong e Mayo a Luz Ardiden: lei non attaccò, e aspettò... Lo rifarebbe ancora?
"Sì, lo rifarei. Fu una decisione presa in una frazione di secondo. Via radio Pevenage mi disse: "Qui siamo al Tour de France, Jan, pensa bene a quel che fai". Ci pensai e agii d'istinto. Poi, sempre d'istinto, Lance rientrò e, carico di adrenalina, ci staccò. Arrivai al traguardo quaranta secondi dopo di lui. Senza quella caduta saremmo arrivati lassù in tre, ne sono convinto ancora oggi".
Poi le si riaprirono le porte della Telekom, che nel frattempo aveva assunto il nome di T-Mobile.
"Fu Vinokourov a venirmi a chiedere se mi sarebbe piaciuto tornare. Gli chiesi: "perché vuoi che io ritorni? Tu oggi sei il capitano della squadra". E lui: "Insieme potremmo far arrabbiare meglio Armstrong", mi disse. Quell'anno si concluse con tanti premi, tanti riconoscimenti. Uno dei più importanti fu il World Award, per la mia azione corretta nei confronti di Armstrong: a consegnarmelo fu Michail Gorbachov. Salii sul palco e dissi emozionato: "Signor Gorbachov, se lei non avesse reso possibile la caduta del Muro, io certamente non avrei mai potuto correre un Tour de France. Non sarei quindi diventato quello che sono oggi. Per questo, la ringrazio"".
Un'ultima parola su Lance Armstrong...
"Ho sempre pensato che questa nostra rivalità non escludesse il fatto che in futuro, quando non saremmo più stati ciclisti professionisti, saremmo andati insieme a bere una birra o un buon bicchiere di vino. Se ciò avverrà, avremmo sufficienti argomenti di conversazione".
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