Gino Bartali: "La salita che mi ha fatto più soffrire"

Il giovanissimo Gino Bartali aveva partecipato al Tour del 1937, e prima di ritirarsi per caduta aveva destato grande impressione soprattutto in salita. Nel '38 "bisognava" che un italiano vincesse all'estero e i dirigenti dello sport nazionale assecondarono le attese del regime. Pertanto Bartali, non per sua volontà, saltò il Giro d'Italia per concentrarsi sulla conquista della maglia gialla. Ecco un brano delle sue memorie in cui ci racconta come andò (da Gino Bartali, "Tutto sbagliato, tutto da rifare", Mondadori, 1979. Capitolo IV: "Il Tour de France 1938").

Anche se può essere stato vero che l'accurata preparazione mi abbia molto giovato, io penso che quel Tour l'ho vinto per due fondamentali ragioni: perché a meno di 24 anni compiuti, avevo una forza da leone maturata in anni, ormai, di allenamenti e attività programmata; e perché avevo a mia disposizione una squadra tutta per me, affiatata e fatta da uomini di ferro: Bergamaschi, antico rivale nei giri d'Italia, Bini, l'avversario-amico di sempre, Vicini, ormai più che una speranza del ciclismo nazionale, Martano, mio ex-capitano, e poi Cottur, Servadei, Mollo, Introzzi, Trogi, gente da corse a tappe, dura, abituata a tutte le fatiche. E guidati dall'esperienza di un grande campione del passato, come era stato Costante Girardengo, Commissario tecnico della squadra italiana.
Ma il gioco di squadra, quando si viene al dunque, e nel Tour il "dunque" erano i Pirenei e le Alpi, quando bisogna tirar fuori tutte le proprie energie e non si possono sfruttare quelle degli altri, perché la montagna è lì e tu devi affrontarla da solo, poteva anche non bastare. La mia paura maggiore erano diventate proprio quelle salite che erano sempre state, e sarebbero state anche dopo, il mio cavallo di battaglia.
Forse per questo feci le prime nove o dieci tappe tutte d'attesa, attento a non sprecare energie, e a non prendere distacchi troppo forti dai cosiddetti uomini di classifica. Forse per questo, nelle tappe dei Pirenei, mi limitai a fare dell'avvicinamento. Senza contare lo spauracchio delle cadute. E il ricordo, ancora fresco, del tuffo nelle acque gelate del Colau... Da toccar ferro tutti i minuti...
Certamente un grosso balzo verso la maglia gialla di quel mio primo Tour vittorioso l'ho fatto nella Pau-Luchon, che mi vide solo terzo al traguardo, ma che mi fece passare dal 19mo al secondo posto in classifica. È STATA, IN TUTTA LA MIA CARRIERA, LA TAPPA CHE MI HA FATTO PIÙ SOFFRIRE, anche se non può essere paragonata, quanto a dolore fisico, alla tappa della caduta nel torrente dell'anno prima.
C'erano da scalare i quattro colli pirenaici: nell'ordine l'Aubisque, il Tourmalet, l'Aspin e il Peyresourde, allora tutti sassi e polvere. La mia sofferenza fu soprattutto psicologica. È la tappa che io ricordo come quella in cui sono andato su quelle terribili salite... parlando con le montagne. Già sull'Aubisque, contrariamente a quanto fatto sino ad allora (la corsa d'attesa), avevo provato ad attaccare. Ed ero arrivato in cima da solo, anche se Sylver Maes e Verwaecke, i belgi più forti del momento, non essendo finiti molto staccati in salita, mi avevano ripreso alla fine della discesa.
I due avversari, all'inizio della salita del Tourmalet, mi cominciarono a prendere un po' in giro: mi dicevano che, durante l'inseguimento, avevano avuto il tempo di "mangiare alcuni piccioncini teneri" e che, mentre io faticavo non poco a spingere un rapporto, forse sbagliato, su per le rampe, loro tra poco mi avrebbero staccato. Forse si erano accorti che montavo un rapporto sproporzionato, se non vado errato il mio solito 48 x 22 (equivalente a un moderno 39 x 18, ndr): fatto si è che mi venivano a turno vicino e, con un francese approssimativo, accompagnato da un'eloquente mimica, mentre spingevano sculettando facili e agili un 45 x 27 (equivalente a un moderno 39 x 23, ndr), mi dicevano: "Là haut tu sera tout seul. En arrière...". Ma poi si mettevano a ruota, a farsi tirare.
Sentivo il cuore, solitamente così tranquillo, che mi batteva forte e sembrava, guardando la maglia che si fosse ingrandito, tanto era gonfio il petto e il respiro affannoso. Ogni tanto sentivo dentro di me come degli strappi: mi veniva una gran paura di essere costretto a scendere. E cercavo con occhi ansiosi di vedere dove la salita finisse. Parlavo a mezza voce: "Lassù è la fine; c'è tanta gente; è sempre così in cima alle salite, c'è sempre tanta gente". Mi sentivo le gambe come fuse nel bronzo, tanto i muscoli erano impegnati. Ogni tanto, quasi come a ripetere giaculatorie, mi sentivo sospirare: "Non ce la fò più, non ce la fò più". Questo pensare e parlare da solo, a monosillabi, era frutto della fatica: non potevo pensare e dire parole più lunghe. Eppure... "Lassù è finito; lassù...", mi ripetevo a cercar coraggio. E poi il soliloquio; continuativo: "Dài, Gino, vai su! Dài che ce la fai". Ancora, a ogni curva, quando la strada, invece di allargarsi verso il passo, continuava stretta e ghiaiosa, quasi un ritornello di pessimismo: "Ora scendo, ora scendo". Raggiungo la curva con tanta gente: meno male, è davvero finita... Macché: ancora più su c'è un'altra curva, poi un'altra ancora, poi un'altra... Sono tutte curve piene di gente che sventola fazzoletti, applaude, incita.
Io non ce la faccio più: oltre la schiena e le braccia, ora mi fanno male anche le gambe. Cerco di rallentare un po'. Mi volto, a guardare i due belgi che sono lì: "Ma perché non se ne vanno, perché non attaccano?". Mi accorgo che anche loro fanno fatica, sono meno allegri, anzi sono un po' scomposti nello sforzo. Il confronto mi rincuora un poco. Poi la salita s'impenna verso la fine. E io torno a prendermela direttamente con la montagna dura, cattiva, di sasso. Impreco sempre a mezza voce, le mie giaculatorie, che seguono il ritmo delle pedalate: "Dài, dài, dài!". Finalmente, all'interno di una gran curva, un attimo di distrazione: una bella famigliola che sta facendo il suo pic-nic e gesticola di gioia quando arriva il terzetto dei forzati. Un plaid colorato, delle belle tartine, birra e acqua minerale fresca. E noi lì a pedalare... Invidia e rabbia di nuovo con la montagna. Poi è davvero l'ultima curva: trovo la forza per lo scatto che mi fa vincere il premio della montagna e mi dà l'abbuono a un altro passetto verso la gialla. Ma quanta fatica...
E non era finito un bel niente. Nella discesa del terzo colle, l'Aspin, caddi (provate a pensare che bello!): lo spauracchio tanto temuto nella lunga vigilia inerte per la preparazione al Tour era diventato vero. Mi rialzai e verificai i danni: niente di grave, per fortuna. Ma i due belgi erano andati via, finalmente. Altro inseguimento sul Peyresourde, a riprenderli. E altra fatica. Con la paura di non farcela. Tutto da capo, come prima sul Tourmalet. Per fortuna che il Peyresourde è più corto. Al traguardo, mi son sempre detto, non potevo non arrivare terzo. A parte il loro gioco di squadra, mi sembrava di essermi svuotato, tante erano le energie che la montagna cattiva mi aveva succhiato.
Sono tornato, nel 1954, da borghese e con mia moglie Adriana, da quelle parti. Andavo a fare una delle mie consuete visite a Lourdes, dato che quell'anno, l'ultimo della mia carriera, non avevo fatto il Tour. Sono arrivato al grande curvone dove la famigliola allegra si faceva il suo pic-nic. Mi sono portato anch'io un plaid colorato con le tartine e la birra per trasformare in realtà quello che, durante la gara massacrante, era sembrato un bel sogno. Le tartine me le prepararono i nemici, tornati amici, di un altro Tourmalet, quello del 1950 che, proprio per atti di teppismo lassù verificatisi, aveva determinato il ritiro di tutta la squadra italiana, con Bagna che era in maglia gialla.
Intanto, quel giorno di luglio del '38, i belgi mi batterono. Mi presi, è vero, la bella soddisfazione di vincere la Montpellier-Marsiglia (in volata) proprio il giorno del mio compleanno e proprio nella città dove era avvenuto il mio ritiro l'anno prima. Ma la vittoria che si stava costruendo non poteva venire che sulle Alpi. A Digne, vigilia del tappone coi soliti Allos, Vars e Izoard, questa volta fatti a rovescio rispetto al '37, ero secondo in classifica a 1'45" dalla maglia gialla Verwaecke. Roba da ridere.
Pensate al destino: proprio sulle stesse strade (ma fatte in senso contrario, da Digne a Briançon) che avevano visto la mia disfatta un anno prima, quando correvo tutto fasciato, costruii la vittoria.
Non vi starò a fare la cronaca della gara, ma ho l'obbligo di ricordare il grande aiuto che mi diedero Mollo e Vicini, quest'ultimo soprattutto, che mi aiutò a staccare, sfiancandolo, l'ultimo degli avversari, il lussemburghese Clemens, che aveva resistito al nostro attacco sino all'Izoard. A Briançon arrivai con 11' di distacco su Vicini, ottimo secondo, 18' su Clemens, 21' su Verwaecke. Ero primo in classifica generale con 18' 27" sull'ex-maglia gialla: distacco che conservai sino a Parigi, dopo altre dieci tappe.
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