Aldo Bini - Il virtuoso e leggendario monello

Simpatia tipicamente toscana e forza scultorea, immessa su un corpo non certo molto alto (1,74), ma compatto (73 kg), pronto a far paura quando l'ispirazione dei suoi neuroni si concentrava su un obiettivo agonistico. In lui, d'improvviso, si coagulavano convinzione precisa su mezzi assolutamente rari in tutto lo sport e... fuoriuscivano delle prestazioni che hanno avuto dello sbalorditivo. Alcune, anticipate con apparente irriverenza verso i malcapitati che dovevano impegnarlo, ma in realtà, altro non era che la sicurezza partorita da una profonda lettura interna.
Di questi pezzi sì rari, lui, Aldo Bini, spesso ha abusato anche contro le non scritte, ma presenti leggi dello sport, ed in particolare, dell'esigente e ben poco solvibile pedale. Con lui, verace in tutto il suo segmento quotidiano, ci troviamo di fronte ad uno dei talenti più sopraffini della storia del ciclismo italiano, uno che poteva arrivare a tracciare un solco indelebile e riconosciuto, sugli interi orizzonti internazionali della disciplina. A suo modo, artista naif fino al midollo, ed assolutamente incapace di razionalizzare a proprio tornaconto materiale, le rare stimmate con le quali era nato.
Un genio puro, rimasto tale, sempre. Anche quando il suo sorriso, dopo una prestazione fenomenale, poteva annunciarne un'altra nella complessa e spesso invisibile logica di chi è campione fino alle viscere. Invece no, Aldo vinceva, ma non si poneva obiettivi a lunga gittata, gli bastava intimamente gioire a suo modo, perché quello era il suo puro istinto. Se però al mattino, prima di partire per la corsa, annunciava che avrebbe vinto, si poteva credergli, perché difficilmente sbagliava.
Autore di una bella carriera, ma inferiore a quella che avrebbe potuto essere, Aldo Bini, pur con un curriculum professionistico di nota e di grande evidenza (ben 61 vittorie!), può essere considerato uno fra gli incompiuti del ciclismo italiano. Tutto questo la dice lunga sul potenziale di questo ragazzo.
Nato a Montemurlo, esattamente nella frazione di Bagnolo il 30 luglio 1915, Aldo Bini, iniziò presto ad usare la bicicletta come un mezzo per evidenziare le sue straordinarie differenze rispetto ai coetanei e quando poté iniziare a correre, nell'allora prima categoria possibile, gli allievi, il suo dominio si manifestò. Da Firenze arrivò un avversario di cui si diceva un gran bene, si chiamava Gino Bartali, ma negli scontri avvenuti, fu Bini a vincere.
Anche fra i dilettanti i due continuarono a spartirsi traguardi e tifo, ma fu ancora Aldo Bini a trionfare il maggior numero delle volte. Le voci echeggiavano sulle sempre crescenti folle d'appassionati di ciclismo, sport spesso preso come baluardo di sfogo per l'imperante dittatura fascista del tempo, ed anche se i media di allora erano di minima consistenza rispetto all'asfissia di oggi, gli echi delle imprese di quel ragazzo-fenomeno pratese, cominciarono a creare fama via via più intensa.
Aldo Bini, il giovane di Bagnolo, compatto nel fisico e sicuro dei suoi mezzi come nessuno, incentivò, come fosse un gioco facile, il numero delle sue vittorie, alcune colte con un'evidenza sensazionale. Fra i tecnici e gli osservatori di quei primi anni trenta, in considerazione del tramonto del vecchio Alfredo Binda, nacque la convinzione che fosse Bini, e non Bartali, il futuro numero uno del ciclismo italiano, anche perché primo della classe, fra i dilettanti, Aldo lo era in tutto e per tutto. Montemurlo, grazie a quel suo figlio dalle gambe di ferro, cominciò così a sentirsi un centro importante, perché allora e per tanti anni ancora, il ciclismo schiacciava il calcio e, fra le due discipline, confronto non c'era proprio.
I tecnici, intanto, spiegarono perché il giudizio di "miglior speranza" si concentrava su Bini e non Bartali: il pratese era considerato più completo del fiorentino e questo fu come dare spago ulteriore, alla sempre giocosa quanto distinguibile rivalità, fra pratesi e fiorentini. Ed i due ragazzi simbolo, ne subirono gli effetti per anni, fino ad avvicinarsi naturalmente per loro stessa ricerca e diventare fraterni amici. Quel clima dal pathos popolare e quasi contradaiolo, toccò apici di clamore nel 1933 e 1934, quando nelle corse dilettantistiche, i due toscani azionavano certo la rivalità, ma pure un dominio impressionante, soprattutto da parte di Aldo, vero fenomeno tentacolare, capace di mettere la ruota dappertutto e loquace come pochi.
Venne così il giorno di una gara che non ha confronti nell'intera storia del ciclismo. Le essenze di quella lontana giornata del 1934, ci giungono coi pennelli e la recitazione poetica della leggenda. Aldo Bini, già "monello" per antonomasia e vicino come non mai al suo io profondo, si presentò sorridente al via di una delle più importanti e difficili corse toscane per dilettanti. A pochi secondi dalla partenza, si rivolse al gruppo degli avversari dicendo ad alta voce: "ehi ragazzi, guardatemi bene adesso, perché al via vi pianto tutti e non mi vedrete che al traguardo!".
Le smorfie degli altri, apparvero come di circostanza, vinte com'erano dal dubbio, fra la straordinarietà di quel annuncio e... il timore che il ragazzo di Bagnolo la volesse veramente fare grossa. Sapevano bene che era capace di tutto. Ed infatti Aldo Bini andò immediatamente in fuga e percorse da solo i 160 chilometri della corsa, arrivando al traguardo con 8 minuti sul secondo. Alla fine, il suo largo sorriso di compiacimento, mise un sigillo unico su una giornata forse in gran parte sconosciuta o dimenticata della storia del ciclismo.
Ovviamente, Aldo, era stato così convincente che apparve a tutti come un vero fenomeno e non certo lo "sbruffone" della partenza. Il "monello", era negli apogei del cultori del ciclismo del tempo e nulla poteva far pensare che la sua vita, votata a mantenersi sull'onda di quella gioventù che sempre porterà incancellabile la voglia di divertirsi, fosse in lui predominante sui doveri di curarsi la carriera.
Sul finire dello straordinario 1934, Aldo corse con gli indipendenti professionisti in maglia Maino la Coppa del Re e la vinse, dimostrando, da subito, quello sprint letale per chiunque fosse arrivato a giocarsi il traguardo in volata con lui. Nel 1935, col viatico di un passato da leggendario dilettante e col successo al debutto nell'elite ciclistica, sempre con la Maino, passò ufficialmente nella massima categoria.
Il professionismo mise in evidenza le sue doti da velocista, ma cominciò a fargli pagare la non completa dedizione alle leggi di questo sport e Bini diventò un grande, ma non quel fenomeno che si pensava. La concentrazione era calata, la vita troppo brava, i sacrifici non sempre dietro al suo angolo, l'amore per le bellezze che la sua imperante gioventù poteva garantire, la stessa sua fama, furono freni che ebbero un peso determinante.
Comunque, la sua ruota, oltre che veloce, si dimostrò spesso vincente. Nell'anno del debutto ufficiale furono nove i successi, fra i quali due classiche nazionali di blasone: il Giro del Piemonte e il Giro dell'Emilia. Fu selezionato assieme a Guerra e Olmo, per difendere i colori azzurri al mondiale di Floreffe in Belgio, dove giunse quarto, unico degli italiani a giungere al traguardo. Vinse il belga Jean Aerts e Bini regolò alla grande il gruppo nello sprint per il quarto posto.
Nel 1936, Aldo Bini vinse sei volte, bissando il trionfo al Giro del Piemonte e mise per la prima volta il suo veloce sigillo nella "classica della velocità": la Milano-Modena, una corsa che poi lo eleggerà come uno dei velocisti più forti che l'Italia abbia storicamente mai espresso. Notevolissimo il suo Giro d'Italia dove vinse la tappa Torino-Genova e rimase per cinque giorni in maglia rosa. Ai mondiali di Berna, in Svizzera, finì secondo, dietro Antonin Magne, "stracciando" nella volata del gruppo quello che veniva considerato come lo sprinter più forte dell'epoca, l'olandese Middelkamp.
Grande fu il 1937 del corridore di Montemurlo, quando, al "solito" successo nella Milano-Modena, aggiunse ben tre tappe del Giro d'Italia, una corsa che lo vide spessissimo protagonista. Vinse, infatti, la frazione di Rieti, ma fu squalificato e il successo fu assegnato a Cimatti. A quel punto Bini, grintoso più che mai, si rifece con tre volate regali ad Ancona, Forlì e nell'ultima tappa a Milano. Sempre a Milano, vinse in coppia col francese Archambaud, il Giro della Provincia. Al mondiale di Copenaghen, Aldo, al pari di tutti gli italiani, si ritirò. Ma la stagione doveva riservare al corridore pratese, una delle sue più grandi soddisfazioni di carriera: la vittoria nel Giro di Lombardia, una superclassica dal percorso non certo adatto ad un velocista. Bini fu semplicemente stupendo. Andò in fuga sulle rampe del Ghisallo a sessanta chilometri dal traguardo e non fu più ripreso, lasciando Bartali e Landi alle piazze d'onore. La sua impresa dimostrò che se era ispirato e volenteroso, poteva arrivare anche su traguardi difficili.
Nel 1938, i segni della sua non completa dedizione al ciclismo fecero capolino e Aldo non fu autore di una stagione come le precedenti: quattro vittorie di cui solo la Milano-Modena di rango primario. Ai mondiali di Valkenburg, ancora una volta al pari di tutti gli italiani, si ritirò. Anche nella stagione successiva, l'abulia infervorò su Bini e... tanto per far capire che c'era, la sua ruota sfrecciò solo sul Circuito di Rieti. Si risvegliò nel 1940 vincendo otto corse, con la Coppa Bernocchi e il G.P. Mellaha in Libia, su tutte.
La voglia di dimostrare qualcosa oltre i soliti sprint sui circuiti, si concentrò in due stupendi successi nel 1941: di nuovo il Giro del Piemonte e il trionfo sullo scenario del Vigorelli di Milano della Gran Fondo d'Italia, una corsa di ben seicento chilometri.
L'anno successivo, mentre gli echi della guerra s'erano resi così vicini e funesti, il sempre fortissimo (quando voleva) Aldo Bini, bissò il successo nella classicissima Giro di Lombardia. Ancora una volta, a lui si piegò Gino Bartali e terzo finì Toccaceli. Ma non erano più le "guerre" che animavano i due fra i dilettanti, anzi fra il pratese e il fiorentino l'avvicinamento stava iniziando a veloci passi a farsi sentire.
Alla ripresa delle corse dopo la ferma per il conflitto mondiale nel '43 e '44, Bini non s'accasò subito, riprendendo così i colori di quella Associazione Ciclistica Pratese che tanto lo aveva applaudito e coccolato ai tempi del dilettantismo. Vinse in stagione quattro circuiti, mettendo ancora una volta in mostra doti non comuni di velocista.
Nel 1946, quello che già i due avevano sistemato in privato, avvenne in pubblico: Aldo Bini passò alla Legnano di Gino Bartali, la supersquadra che, nel frattempo, aveva perso per impossibilità di convivio sotto gli stessi colori di due campioni, come il fiorentino e l'astro nascente, già vincitore del Giro del 1940 e primatista dell'ora, Fausto Coppi. Ad Aldo, arrivarono così anche quei compiti di spalla a Bartali che sarebbero apparsi come una "bestemmia" un decennio prima. Bini però, si dimostrò fedele e fraterno verso l'ex avversario (spesso battuto), sicuramente con connotati di disponibilità superiori a quelli che lo avevano contraddistinto nel costruire, per lui stesso, una carriera da supercampione.
E così, nell'unico Giro d'Italia in cui Bartali riuscì a battere Fausto Coppi, Bini fu al suo fianco e lo aiutò non poco nell'importante successo. A livello personale, in quella famosa edizione della corsa rosa, ruggì con la solita leonina espressione di forza, nella tappa di Ancona. Nell'anno, vinse altre sette corse, fra le quali l'importante Criterium d'Europa a Nizza e il Criterium di Lugano.
Nel 1947, anche per alcuni problemi fisici, Bini non fu presente con regolarità e l'annata segnò un solo, per quanto significativo, acuto nel festival dei velocisti, ovvero nel Criterium del Belgio a Mons. In quella occasione la sua ruota, nonostante i trentadue anni sulle gambe, fu spinta davanti a fior di sprinter di mezza Europa.
Il declino agonistico e fisico-mentale di Bini, apparve evidente nelle due stagioni di fine decennio, in cui, in maglia Benotto, non riuscì a vincere nemmeno uno di quei circuiti che tanto spesso l'avevano visto sfrecciare col suo incredibile rush. Tornò al successo nei criterium di Rimini e Borgomanero nel 1950, in maglia Ganna, tanto per dimostrare che era ancora capace, volendo, di mettersi dietro tutti nelle volate. Nessun successo nell'anno successivo e poi, nel 1952 col ritorno alla Bianchi, stavolta accanto a Fausto Coppi, il suo "canto del cigno", prima sull'amico circuito di Borgomanero e poi nella classica Milano-Torino, un successo strepitoso pronto a testimoniare quante facoltà avesse avuto dalla natura. Con quell'acuto, il sessantunesimo fra i professionisti, si concluse l'incontro con la vittoria del grande corridore di Bagnolo di Montemurlo.
Aldo Bini però, continuò a correre. Nel 1953, di nuovo a fianco di Gino Bartali, concluse il Giro d'Italia e, nell'anno successivo, l'ultimo del grande campione fiorentino, fu ancora con lui. Anche il 1955, vide Bini al via di alcune corse, ma stavolta senza una squadra, bensì come "isolato" ben riscontrabile, vista la sua loquacità e la disponibilità allo scherzo. Caratteristiche che facevano parte di quello status di personaggio "monello" che mai l'abbandonò e che lo portò, per scommessa da bar, a porsi al via del Giro di Toscana nel 1959, a 44 anni!
Ben presto però, si ritirò, perché dell'uomo che vinse andando in fuga solitaria in partenza, per arrivare da solo con otto minuti sul secondo, dopo 160 chilometri di solitudine, altro non era rimasto che il nome, Aldo, e il cognome, Bini.
A dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta il sedici giugno 1993, la piazza del suo paese, completamente ristrutturata, sarà intitolata a Bini e, su di essa, proprio al centro, verrà collocata una scultura in bronzo, ad opera dello scultore vicentino Vittorio Tessaro, raffigurante l'ultimo successo del grande corridore locale nella Milano-Torino del 1952. L'opera è stata fortemente voluta dagli sportivi della zona che si sono uniti, allo scopo, in Comitato per ricordare il loro concittadino profeta in bicicletta e in vita.
Articolo inviato da: Maurizio Ricci (Morris)
©2002-2023 Museo del Ciclismo Associazione Culturale ONLUS - C.F.94259220484 - info@museociclismo.it - Tutti i diritti riservati

I dati inseriti in archivio sono il risultato di una ricerca bibliografica e storiografica di Paolo Mannini (curatore dell'Archivio). Le fonti utilizzate sono svariate (giornali, libri, enciclopedie, siti internet, archivi digitali e frequentazioni sui vari Forum inerenti il ciclismo). Chiunque desideri contribuire alla raccolta dei dati, aggiunta di materiale da pubblicare o alla correzione di errori può farlo mettendosi in contatto con Paolo Mannini o con la Redazione.

Preferenze Cookies - Privacy Policy