Massimo Berti - La borraccia dal padre, poi cade e muore

La Repubblica 4 maggio 1989

Alè Massimo, e gli tendono una borraccia dal bordo della strada. Mamma e papà hanno occhi solo per il loro campioncino, che insegue i fuggitivi già transitati sul Gran premio della montagna. Massimo Berti, 19 anni, veronese di Pressana, al debutto nel ciclismo dilettantistico, scompare cento metri più avanti: scollina e si getta a tutta lungo la discesa. Sessanta all'ora, ma forse c'è il tempo per dissetarsi. Curva: uno scarto della bici, lo schianto sul guard-rail. Il ragazzo vola come un bambolotto di pezza e ricade picchiando con il collo sul filo d'acciaio che sostiene un filare di viti. Con la sirena dell'ambulanza arrivano anche i genitori. Massimo è morente. Lì, in mezzo a una vigna, a quaranta chilometri dal traguardo della seconda tappa del nono Giro del Veneto. La gara lo aveva avuto subito tra i protagonisti: per cento chilometri, lui, abituato ai ridotti chilometraggi della categoria juniores, aveva misurato le forze. Si accingeva a transitare con i primi tra le gialle case Marzotto di Valdagno. All'attacco del passo Santa Caterina erano schizzati via due colombiani e, sul ritmo delle loro pedalate, erano saliti anche due veneti: Poser e Da Riva. Subito dietro, nel gruppetto di segugi, c'era anche la maglia della Egi Zanotto appiccicata dal sudore alle spalle di Massimo Berti. A due passi dal Gran premio della montagna, ad attenderlo, c'erano il padre Tino, commerciante ortofrutticolo, la madre Franca Panozzo e la sorella Orietta. Auto ferma a bordo strada e pronta a ripartire infilandosi nella carovana. Avevano consegnato il borraccino al loro ragazzone, fresco di naja e ciclista a tempo pieno. Raccolto un grazie sussurrato nello sforzo dell'arrampicata, i genitori erano balzati in auto intrufolandosi tra le ammiraglie al seguito. Un chilometro di discesa, poi papà Tino ha visto una bici in mezzo al prato e l'ambulanza ferma a bordo strada. Pare la bicicletta di Massimo, ha detto, fermandosi. Lì, in mezzo al prato, c'era anche suo figlio, agonizzante, l'osso del collo spezzato da quel cavo maledetto. La mamma è salita in ambulanza con lui; il medico della corsa, Savino Ghiro, l'ha sostituita in auto al fianco di Tino Berti. In fondo alla discesa l'ambulanza ha fatto risalire il dottor Ghiro, che ha potuto solo constatare la morte del ragazzo. Inutile il viaggio verso l'ospedale di Valdagno. Intanto la tappa del Giro del Veneto era terminata e la notizia è giunta come una mazzata tra corridori e direttori sportivi. Questi ultimi hanno convocato un summit: con un morto di mezzo, era il caso di continuare? Un dibattito duro, a tratti schizofrenico, poi ha prevalso la ragion... di sport e di sponsor. Il ciclismo è vita ha spiegato il presidente regionale della Federciclo, Bruno Coccato e anche in questo caso il ciclismo va avanti. A molti sono venute alla memoria le immagini di Ravasio, inchiodato sull'asfalto durante una tappa del Giro d' Italia; altri hanno ricordato un altro veneto, Carletto Tonon, urtato da un pompiere cicloturista in una discesa del Tour e mai tornato alla vita normale. Inutile cercare responsabilità: ancorati a terra da due sottilissimi tubolari, i ciclisti rischiano ad ogni pedalata. Se si arriva stremati alla cima del colle, quando si inizia a picchiare verso la pianura lo sguardo rischia di annebbiarsi. Quella borraccia d'acqua? Troppo crudele credere che all'origine di tutto ci sia la premura di due genitori felici e appassionati. Oggi il Giro del Veneto, dunque, riparte da Recoaro. Tutti i corridori porteranno il lutto al braccio. I compagni di tante gare ricorderanno quelle vittorie di Massimo a Cologna e nella Verona-Mantova, poi torneranno ad alzare il capo verso il prossimo traguardo.
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